L'11 giugno presso l'Istituto Mario Negri a Milano si è svolta la presentazione del progetto "Donna Informata-Mammografia" che ha coinvolto 2000 donne e nel corso del quale è stato messo a punto uno strumento decisionale riguardante i programmi di screening mammografici. Attraverso diverse schermate, le partecipanti allo studio sono state informate dei possibili benefici e danni che gli screening per il cancro al seno comportano e delle controversie scientifiche in corso riguardanti l'efficacia dei programmi stessi. Un compito arduo, quello che gli autori dello studio si sono assunti, vista la disinformazione sugli screening e il cancro al seno più in generale in Italia (per approfondire clicca qui).
Le Amazzoni Furiose sono state invitate a partecipare all'incontro per commentare i risultati dello studio rappresentate dalla nostra Valentina Bridi. È un riconoscimento importante del lavoro che abbiamo svolto in questi 7 anni per offrire alle donne italiane un'informazione accurata e svincolata da interessi di tipo economico sul cancro al seno.
Alla presentazione dei risultati dello studio è seguito un dibattito che ha visto la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni medico-scientifiche e delle pazienti. Di seguito il testo dell'intervento di Valentina:
"Ringrazio per questo invito gli organizzatori, perché non è così frequente che quando si parla di cancro al seno e si parla della malattia a livello pubblico venga dato spazio e voce a chi ha un pensiero critico non tanto rispetto alla malattia, ma al modo in cui la malattia viene rappresentata a livello collettivo e al modo in cui le donne vengono informate. Per me è un piacere essere qui. Il punto di partenza dello studio di cui abbiamo parlato, ovvero considerare l’informazione corretta delle donne un obbligo etico, ispira la mia attività di advocacy e quella delle donne che sono qui oggi a rappresentare.
Mi scuso se non avrò la voce ferma, ma per me è sempre difficile parlare del tumore al seno, perché è una malattia che ha sconvolto e cambiato per sempre la mia vita.
Oggi rappresento Le Amazzoni Furiose, un collettivo di donne nato nel 2012, inizialmente come blog personale di Grazia De Michele che oggi non ha potuto essere qui con noi. Grazia è una ricercatrice e storica della medicina che ha incontrato la malattia all’età di 30 anni e all’età di 30 anni si è scontrata con quella che è la rappresentazione e la narrazione collettiva dominante della malattia, che non rispecchia il vissuto di molte donne che si trovano a viverla. Una narrazione caratterizzata da un atteggiamento tranquillizzante, banalizzante, anche di speculazione, di strumentalizzazione e sessualizzazione.
Dalla sua esperienza di malattia Grazia ha portato in Italia il pensiero e l’attivismo di Breast Cancer Action, un’associazione americana di attiviste che ha a sua volta come mission quello di informare correttamente le donne. Che cosa distingue Breast Cancer Action? Il fatto di non ricevere nessun tipo di finanziamento né da aziende farmaceutiche, né da aziende che da un lato a volte sostengono la ricerca sul cancro al seno e dall’altro sono responsabili, attraverso la loro politica commerciale, dell’aumento dell’incidenza della malattia. Questo aspetto di cui in Italia non si parla praticamente mai prende il nome di “pinkwashing” e rappresenta il modo in cui a volte la malattia e la sofferenza delle donne viene sfruttata per fare profitto.
Della stessa “famiglia” di Breast Cancer Action fa parte anche Sharon Batt che è stata ospite qui in Istituto lo scorso anno proprio a parlare delle relazioni pericolose esistenti fra le associazioni di pazienti e i finanziamenti che le stesse ricevono da aziende farmaceutiche e da aziende con comportamenti quanto meno dubbi. Questo aspetto è per me fondamentale ed ha a che fare con il conflitto di interessi. Andrebbe dichiarato quando si parla di tumore al seno se in qualche modo le persone che ne stanno parlando e che si stanno assumendo anche la responsabilità di informare le donne hanno un conflitto di interessi legato alla malattia per dei finanziamenti che possono ricevere. Sicuramente non è il nostro caso.
Sono finita sul blog quando anch’io, poco più che trentenne, ho incontrato il cancro al seno e mi ha colpita che cercasse di coprire un aspetto centrale ma di cui si sente poco parlare: il fatto che le donne hanno diritto ad essere informate correttamente sulla malattia. Il problema non è che le donne non sono informate, ma che sono informate in maniera scorretta, distorta, proprio da chi avrebbe l’obbligo etico di dare delle informazioni corrette.
Prima di ammalarmi ero una ragazza con un livello di istruzione specialistica e un’attitudine ad informarmi ed approfondire, eppure la mia idea della malattia era profondamente distorta. Credevo che un tumore al seno ci mettesse anni a svilupparsi e che la sopravvivenza così come l’invasività delle terapie fosse strettamente legata alla precocità della diagnosi. Purtroppo ho imparato sulla mia pelle che non è così. L’altra convinzione che avevo e credo sia comune a molte donne era che di tumore al seno non si morisse più o si morisse molto poco.
Oltre che con la malattia mi sono scontrata anche con i dati reali sulla malattia che molto spesso invece vengono diffusi in modo parziale ed edulcorato. Quante volte la sopravvivenza a 5 anni viene spacciata come guarigione? Sappiamo benissimo che nella stragrande maggioranza dei tumori al seno la sopravvivenza a 5 anni purtroppo significa molto poco, perché spesso la malattia recidiva e porta alla morte dopo i 5 anni. Tutte queste cose le ho imparate sulla mia pelle e mi sono resa conto che non è che io non fossi informata, ma che noi donne veniamo talmente bombardate da un certo tipo di informazione che diventa difficile avere un pensiero critico a riguardo.
E’ stato pubblicato l’anno scorso sul British Medical Journal uno studio sull’informazione delle donne in merito agli screening e al rischio di ammalarsi. Questo studio riguardava donne provenienti da diversi paesi europei e le donne italiane sono risultate le meno informate. Una donna italiana su due tra quelle che hanno partecipato è convinta che sottoporsi a un esame di screening le eviti di ammalarsi e quindi la protegga dalla malattia. E’ colpa delle donne? O forse le donne e io per prima rientravo tra queste donne, ricevono un’informazione non corretta da parte di chi le dovrebbe informare?
Sapendo di dover essere qui oggi ho fatto una ricerca molto naif sul web, come potrebbe fare chiunque, per provare a vedere che tipo di informazioni può trovare una donna. Non farò ovviamente nomi, ma i principali enti scientifici e le associazioni di volontariato e di pazienti che si occupano di tumore al seno consigliano alle donne a una visita senologica con ecografia annuale a partire dai 25 anni, una mammografia annuale a partire dai 40 e dai 45-50 in poi lo screening biennale. Non c'è nessuna evidenza scientifica che anticipare la mammografia a 40 anni con cadenza annuale diminuisca la mortalità. Questo è molto importante da dire. Le controversie di cui si è parlato oggi sono controversie che riguardano la fascia di screening dai 45/50 ai 70 nella quale, pur con tutti i limiti, viene indicato che un beneficio di sopravvivenza ci possa essere. Sotto questa fascia di età non ci sono indicazioni per lo screening, eppure le donne ricevono questo tipo di informazioni.
Mi ha molto colpito uno strumento che si può trovare on line su un portale che è il portale di riferimento per la donna che vuole informarsi sul cancro al seno in cui, indicando la propria età, si visualizza la “prevenzione” consigliata. Indicando i 40 anni di età e un rischio normale viene consigliata una mammografia annuale e non c'è nessun accenno a possibili rischi e danni. Io condivido molto questa parola che è stata usata in mattinata: danni. C’è un principio sacro in medicina: “First, do not harm”. Prima di tutto non devo danneggiare il mio paziente. C’è un po' quest’idea, che è un’idea legata al genere e legata al modo in cui viene raccontata la malattia che riassumerei con un pensiero tipo: “Tanto che danno ne posso avere?!?”. In realtà sottoporre una donna ai trattamenti per il cancro al seno, trattamenti che incidono pesantemente sulla qualità di vita delle donne, senza che ve ne sia la necessità è un danno enorme.
Allo stesso tempo viene creata una sovrapposizione fra i concetti di diagnosi precoce e prevenzione. Anche questa non è certo un’idea bizzarra delle donne, ma è un’idea che è stata sostenuta e rinforzata e continua ad essere sostenuta da chi invece dovrebbe informarle correttamente. Si può leggere in diversi portali e siti di settore che la donna può ridurre il suo rischio di ammalarsi sottoponendosi agli esami di screening previsti per la sua fascia di età. Questa è un’informazione colpevolmente scorretta.
Alcune personalità di riferimento in ambito senologico hanno parlato per anni di mortalità zero, veniva indicata come dead-line il 2010: entro questa data il tumore al seno doveva essere sconfitto e quando non si è riusciti l’asticella è stata spostata al 2020.
Gli ultimi dati Istat sulla mortalità parlano di oltre 12000 donne che perdono la vita a causa del cancro al seno in Italia ogni anno.
La verità è che nessuno vuole più associare la parola morte alla parola cancro al seno.
Il nostro punto di vista, come attiviste e come rappresentanti disinteressate delle pazienti, è che solo nel momento in cui si prenderà consapevolezza dei dati e della situazione reale si potrà iniziare a cambiare questa realtà.
E’ molto difficile esprimere questi pensieri. Spesso ci sentiamo dire: “Ma allora cosa diciamo alle donne, di non fare la mammografia?”. Non è assolutamente questo il nostro messaggio. Il nostro messaggio è dire alle donne che purtroppo sottoporsi alla mammografia non elimina il rischio di morire di cancro al seno, ma soprattutto che la politica diagnosi precoce-mortalità zero ha ormai dimostrato la sua inefficacia. Ci sono tumori piccoli capaci di dare metastasi nel giro di pochissimo tempo e tumori grandi che sono perfettamente curabili e guaribili con le terapie già oggi a disposizione. La vera strada è la ricerca di terapie meno tossiche e più efficaci e la ricerca delle cause della malattia.
Chiudo con una frase che mi sta molto a cuore di Barbara Brenner, a lungo direttrice esecutiva di Breast Cancer Action, e che si trova in uno dei suoi scritti circa il rapporto fra speranza, politica e cancro al seno: “La polio era considerata un’emergenza sanitaria quando 50.000 persone all’anno si ammalavano e 3.300 ne morivano. Cosa ci vorrà perché il cancro al seno riceva lo stesso tipo di attenzione? Ci vorrà che tutte le donne che si sono ammalate e quelle a rischio (ossia tutte le donne) si facciano sentire circa il bisogno di cure e prevenzione”.
Grazie.”
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