Per un malato di cancro è davvero molto difficile riuscire a far passare un messaggio equilibrato
al mondo esterno. Il rischio in agguato è quello di polarizzarsi. Cadere nell'edulcorazione
fatta di fiocchetti rosa e di gran sorrisi coraggiosi e positivi da "cancer warrior" da un lato oppure nella
sofferenza cupa, nella lamentela e nello sdegno dall'altro. Un tumore è entrambe le cose: forza, coraggio e positività da un lato ma anche lotta per una qualità di
vita migliore e battaglia per svelare e condannare le ingiustizie e la mala-informazione. Il cancro non può e non deve essere solo un problema personale, quando vengono a mancare alcuni diritti di base, diventa
una questione sociale.
Le due cose non si escludono a vicenda, ma far passare questo è davvero
moooolto difficile. A noi tumorati viene chiesto continuamente di schierarci e scegliere
tra i due estremi, soprattutto i media.....
Vi propongo l'articolo di Massimo, un amico ma prima ancora una grande testa che non ha mai perso la capacità di indignarsi in un paese di "addormentati" come il nostro.
E' una lettura veramente interessante e ricorda a tutti noi, malati e non, di accompagnare sempre la speranza per il futuro e l'atteggiamento positivo nei contronti degli eventi della vita, cancro compreso, ad una riflessione critica, ad un sano sdegno e ad azioni costruttive e concrete per migliorare la nostra qualità di vita ed i nostri diritti. Grazie Massimo
Lamentarsi, il pericolo di una confusione. Salvare il pensiero critico
di Massimo Ferrario da ‘AltriSguardi’, n. 167, 4 aprile 2014
Gira l'ennesima confusione terminologica.
Spesso è in buona fede. Ma ciò non toglie che faccia male. Come spesso capita, peraltro: il male non sempre è intenzionale, e quello peggiore molte volte è inconsapevole.
Alludo al termine ‘lamentarsi’.
Se ne dà una valenza negativa. Giustamente.
Chi si lamenta, si dice, è improduttivo: si piange addosso, fa la vittima, cerca pietà. E non merita ‘pietas’.
Lamentarsi non serve. Anzi, si ripete la solita frase di moda e diventata un mantra un po’ noioso: ‘così non si va da nessuna parte’.
Ma certo. Condivido. Diamoci da fare. Reagiamo. Se ci sono cose che non vanno, anziché continuare a dire che non vanno, facciamole andare.
Ecco, però. E’ qui che avviene, anche quando è inavvertita, la pericolosa torsione e conversione del verbo.
Perché al verbo viene indebitamente dilatato, più o meno consapevolmente, il significato: fino a comprendere, magari in modo subliminale, anche la salutare, e mai troppo praticata, critica (da ‘krinein’: sceverare, distinguere; dunque anche: non negare i punti deboli; considerare l’altra faccia della luna; valorizzare l’ombra…).
Cioè: si tende a far coincidere il ‘lamentarsi’ con sinonimi che non sono per niente sinonimi. Come: valutare, dissentire, dire di no, mettere in discussione, accusare.
Non ci sto.
Soprattutto oggi. Con i tempi che corrono: e che ci spingono ‘riduttivamente’ a restringerci conformisticamente dentro un pensiero unico, o quasi. E che confondono il tentativo (giusto) di semplificare la realtà, che resta complessa (bianca, nera e sfumata in ogni gradazione di grigio), con lo sbrigativo ‘farla semplice’.
Al punto semplice, che rimane sempre e solo il ‘farla’. E non importa cosa. Né come. Purché sia fatta. In fretta. E senza che nessuno eccepisca. O si lamenti. Di quello che si è deciso.
Io vorrei mantenere, aperta e fermissima, la distinzione.
Un conto è restare ripiegati su se stessi, guardandosi l’ombelico e passando la giornata a piangere lacrime di autocommiserazione, di fatto godendosi masochisticamente il proprio vittimismo. E un conto è usare il ‘pensiero critico’, sviluppando la capacità del proprio cervello di usare la ‘pars destruens’, applicandola alla realtà che ci circonda. Con l’intento di ‘smuovere’, questa realtà (e le persone che ci stanno dentro), per renderla, possibilmente, diversa da come è.
Non è un caso che ‘chi si lamenta di più di chi si lamenta’ in genere è un fautore, più o meno fan, più o meno consapevole, del ‘pensiero positivo’. Che nella traduzione becera, troppo spesso diffusa da management e consulenza uniti nella lotta alla rimozione dei fatti, significa: “mai disturbare il manovratore”. Intendendo per manovratore qualunque soggetto della realtà: sia l’altro, specie se occupa posizioni di potere, sia noi stessi.
Dunque, di fronte al bicchiere a metà (perché questo è il dato oggettivo, se il bicchiere è a metà), diciamo che in fondo in fondo, il bicchiere, a guardarlo bene, non è neppure mezzo pieno, ma pieno a tre quarti. In definitiva, praticamente, pieno. E facciamoci un bel sorriso. Che fa sempre buon sangue, e così non ci deprimiamo.
Allora.
Io credo invece che abbiamo bisogno certamente di usare di più e meglio la parte che segue a quella ‘distruttiva’ e che, ovviamente, è (o dovrebbe essere) ‘costruttiva’. Ma, come diceva qualcuno, per decidere ‘che fare’ prima bisogna capire. E per capire bisogna analizzare. E per analizzare non bisogna edulcorare la realtà. Per quanto spiacevole essa sia.
Anche in questo caso, so che la consapevolezza, di per sé, non risolve. Non è che subito, presa coscienza, consegue l’azione. Però prendere coscienza aiuta. Ed è comunque attraverso la presa di coscienza, possibilmente diffusa, e non soltanto di chi l’ha già raggiunta (ma il raggiungimento è sempre in fieri ed è sempre un a tendere), che poi possono avvenire i cambiamenti. Quelli veri. Duraturi. Che servono. E non quelli di facciata. Da vendere con le slide. In azienda o altrove.
Se ciò ha qualche fondamento, io continuo a pensare che tra ‘lamentarsi’ e ‘criticare’ una differenza c’è e deve restare: e lo sottolineo usando l’indicativo, non il congiuntivo.
Una differenza alta come un grattacielo.
Sovrapporre i due termini, finendo poi per lamentarsi di chi esercita una critica con il fine di promuovere un dissenso costruttivo che spinga all’azione (e non al pianto individuale o all’autocommiserazione collettiva), è un’operazione profondamente disutile. Perché a priori conservativa: quando non chiaramente reazionaria. Anche se poi tutti, visto che non costa nulla, ci riempiamo la bocca di cambiamento e innovazione.
Una volta, per questa operazione, si sarebbe scomodata ancora la coscienza. Per colpa o dolo, in ogni caso si sarebbe detta: falsa.
Spesso è in buona fede. Ma ciò non toglie che faccia male. Come spesso capita, peraltro: il male non sempre è intenzionale, e quello peggiore molte volte è inconsapevole.
Alludo al termine ‘lamentarsi’.
Se ne dà una valenza negativa. Giustamente.
Chi si lamenta, si dice, è improduttivo: si piange addosso, fa la vittima, cerca pietà. E non merita ‘pietas’.
Lamentarsi non serve. Anzi, si ripete la solita frase di moda e diventata un mantra un po’ noioso: ‘così non si va da nessuna parte’.
Ma certo. Condivido. Diamoci da fare. Reagiamo. Se ci sono cose che non vanno, anziché continuare a dire che non vanno, facciamole andare.
Ecco, però. E’ qui che avviene, anche quando è inavvertita, la pericolosa torsione e conversione del verbo.
Perché al verbo viene indebitamente dilatato, più o meno consapevolmente, il significato: fino a comprendere, magari in modo subliminale, anche la salutare, e mai troppo praticata, critica (da ‘krinein’: sceverare, distinguere; dunque anche: non negare i punti deboli; considerare l’altra faccia della luna; valorizzare l’ombra…).
Cioè: si tende a far coincidere il ‘lamentarsi’ con sinonimi che non sono per niente sinonimi. Come: valutare, dissentire, dire di no, mettere in discussione, accusare.
Non ci sto.
Soprattutto oggi. Con i tempi che corrono: e che ci spingono ‘riduttivamente’ a restringerci conformisticamente dentro un pensiero unico, o quasi. E che confondono il tentativo (giusto) di semplificare la realtà, che resta complessa (bianca, nera e sfumata in ogni gradazione di grigio), con lo sbrigativo ‘farla semplice’.
Al punto semplice, che rimane sempre e solo il ‘farla’. E non importa cosa. Né come. Purché sia fatta. In fretta. E senza che nessuno eccepisca. O si lamenti. Di quello che si è deciso.
Io vorrei mantenere, aperta e fermissima, la distinzione.
Un conto è restare ripiegati su se stessi, guardandosi l’ombelico e passando la giornata a piangere lacrime di autocommiserazione, di fatto godendosi masochisticamente il proprio vittimismo. E un conto è usare il ‘pensiero critico’, sviluppando la capacità del proprio cervello di usare la ‘pars destruens’, applicandola alla realtà che ci circonda. Con l’intento di ‘smuovere’, questa realtà (e le persone che ci stanno dentro), per renderla, possibilmente, diversa da come è.
Non è un caso che ‘chi si lamenta di più di chi si lamenta’ in genere è un fautore, più o meno fan, più o meno consapevole, del ‘pensiero positivo’. Che nella traduzione becera, troppo spesso diffusa da management e consulenza uniti nella lotta alla rimozione dei fatti, significa: “mai disturbare il manovratore”. Intendendo per manovratore qualunque soggetto della realtà: sia l’altro, specie se occupa posizioni di potere, sia noi stessi.
Dunque, di fronte al bicchiere a metà (perché questo è il dato oggettivo, se il bicchiere è a metà), diciamo che in fondo in fondo, il bicchiere, a guardarlo bene, non è neppure mezzo pieno, ma pieno a tre quarti. In definitiva, praticamente, pieno. E facciamoci un bel sorriso. Che fa sempre buon sangue, e così non ci deprimiamo.
Allora.
Io credo invece che abbiamo bisogno certamente di usare di più e meglio la parte che segue a quella ‘distruttiva’ e che, ovviamente, è (o dovrebbe essere) ‘costruttiva’. Ma, come diceva qualcuno, per decidere ‘che fare’ prima bisogna capire. E per capire bisogna analizzare. E per analizzare non bisogna edulcorare la realtà. Per quanto spiacevole essa sia.
Anche in questo caso, so che la consapevolezza, di per sé, non risolve. Non è che subito, presa coscienza, consegue l’azione. Però prendere coscienza aiuta. Ed è comunque attraverso la presa di coscienza, possibilmente diffusa, e non soltanto di chi l’ha già raggiunta (ma il raggiungimento è sempre in fieri ed è sempre un a tendere), che poi possono avvenire i cambiamenti. Quelli veri. Duraturi. Che servono. E non quelli di facciata. Da vendere con le slide. In azienda o altrove.
Se ciò ha qualche fondamento, io continuo a pensare che tra ‘lamentarsi’ e ‘criticare’ una differenza c’è e deve restare: e lo sottolineo usando l’indicativo, non il congiuntivo.
Una differenza alta come un grattacielo.
Sovrapporre i due termini, finendo poi per lamentarsi di chi esercita una critica con il fine di promuovere un dissenso costruttivo che spinga all’azione (e non al pianto individuale o all’autocommiserazione collettiva), è un’operazione profondamente disutile. Perché a priori conservativa: quando non chiaramente reazionaria. Anche se poi tutti, visto che non costa nulla, ci riempiamo la bocca di cambiamento e innovazione.
Una volta, per questa operazione, si sarebbe scomodata ancora la coscienza. Per colpa o dolo, in ogni caso si sarebbe detta: falsa.
Giustissimo. La consapevolezza è la condizione indispensabile per agire in modo costruttivo. E il lamentarsi può servire per acquisire consapevolezza in merito ad un determinato problema, per poi trovare una soluzione. Altrimenti il problema resta, nessuno "si lamenta", e il problema vince, e tutti perdiamo. E questo è sbagliato. E non va bene neanche credere che chiamandole diversamente le cose cambino sostanza; un termovalorizzatore è sempre un inceneritore, l'operatore ecologico è sempre lo spazzino, l'ausiliario è sempre il bidello.
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